Intervista a Giulio De Nicolais d’Afflitto

Giulio De Nicolais d’Afflitto. Quando lo abbiamo conosciuto abbiamo percepito sin da subito la sua distanza dal “comune”, dal consueto, dal borghese. Quella distanza che caratterizza gli artisti, i nobili o i geni.

La sua opera pittorica esprime un figurativo di stile molto italiano. E nel suo percorso è in mezzo tra la prima fase filosofica e quella successiva autoriale. E’ una sorta di “voglia” di rappresentazione della realtà fra due “astrazioni”?

Era l’anno 1993. La mia anima si stava risvegliando da un lungo periodo di materialismo e racchiudeva in sé i germi di quella disperazione che nasce dalla mancanza di una fede. Di uno scopo. Di una meta. Non era ancora svanito l’incubo delle concezioni materialiste, che consideravano la vita dell’universo come un giuoco perverso e senza peso. E che erano il retaggio delle mie sintesi di pensiero frutto degli studi filosofici. La mia anima si stava svegliando, ma si sentiva ancora in preda all’incubo. Intravedeva solo una debole luce, come un punto in un immenso cerchio nero. Con l’inizio degli studi teologici, nasceva il coraggio di approfondire. Con la determinazione dell’immagine fissata sulla tela (quella luce fatta di colori che dà sensazione di sogno), si concretizzava quella frazione di realtà positiva che ancora oggi guadagna spazio ai danni del cerchio nero della realtà sconosciuta e non investigata.

Focalizza un momento di discontinuità che può ricordare come l’innesco della carriera artistica?

Si, l’incontro con la mia insegnate F. M. Mastino. Apprendo la tecnica del colore e mi accingo a realizzare le mie prime opere/immagini; che furono acquarelli di piccole dimensioni e quindi oli su tela ed acrilici: il punto di luce iniziale si era allargato a fascio e nacquero le prime mie opere pittoriche. Fedeli nel tratto esiguo ma preciso alle immagini fissate nella mia memoria di viaggiatore; in Sicilia, Alto Adige ed Irlanda. Come “primi piani” luminosi dai contorni ben distinti, rubati all’ombra.

Il passaggio dalla tela alle rappresentazioni per teatro e cinema, è sempre inserito nel contesto di ricerca delle immagini che si evolvono da statiche a dinamiche? Ci dica di più.

Negli anni successivi, sino ad oggi, il mio percorso artistico è stato caratterizzato dal desiderio di riuscire a guadagnare alla verità elementi dalla nera realtà; utilizzando l’uso delle varie tecniche della comunicazione. Dall’immagine pittorica al reportage. La mia carriera giornalistica è iniziata nell’anno 2001; con la stesura di un copione e di una sceneggiatura, in cui le immagini si evolvono da statiche a dinamiche; tutti strumenti in nostro possesso per investigare i fatti della nera realtà e tradurli alla verità. Il mio primo copione per il teatro intitolato “Al solito Posto” scritto assieme a Gabriella Rossini e Ignazio Palumbo è datato 2009. Seguirà la stesura di altri quattro testi per il teatro in vernacolo romano; redatti insieme agli autori Ignazio Palumbo e Enzo Stavolo (noto compositore musicale romano): “Una certa storia romana”, “Ciak il raggiro”, “Effetti collaterali”. Quindi la stesura del copione della commedia “Psycoroscopya” nel 2010: interamente mia in cui la critica mi definisce “surrealista”. Tutte le commedie sono state rappresentate nei teatri romani; hanno riscosso molto successo e plauso del pubblico, della critica e della stampa.

Quindi l’evoluzione dalle rappresentazioni teatrali al cinema…

Il desiderio del passaggio al mondo del cinema è sorto dalla considerazione di voler raggiungere col mio messaggio mediatico il grande pubblico. Cioè dare a molti la possibilità di riflettere sulle immagini dinamiche delle mie opere; le quali tendono ad investigare quei fatti della realtà su cui si soffermano. Scrivo le mie storie prendendo spunto dalla cronaca; fatti veri comparsi su quotidiani e già dimenticati il giorno seguente, con la stampa dell’edizione del giorno successivo. Riproporre sul grande schermo oppure sul palco di un teatro, alcune storie; arricchendole dei dettagli che può conoscere solamente un testimone oculare effettivo del fatto; oppure proprio il protagonista riportato sulla cronaca. Questo consente ad autore e pubblico di comprendere meglio le problematiche sociali che sono i presupposti del fatto stesso.

Una sorta di “primo piano” sui fatti della realtà?

Si, questa è la ragione per la quale mi piace parlare di “verismo”: perché le storie delle mie opere sono vere e veri se possibile sono gli interpreti. Come è accaduto in “Amore: amore cristiano, amore musulmano” (2010 – 67° Mostra del cinema di Venezia), in cui si racconta la vita del consigliere municipale Luigi Biondi. E nella mia pellicola è proprio Biondi ad interpretare se stesso, a casa sua e nelle strade del quartiere Tiburtino. Così è accaduto anche per il medio metraggio thriller “Sulla scena del crimine” (2011- 68° Mostra del cinema di Venezia). Nel 2013 ho terminato la stesura della sceneggiatura del film lungometraggio fantapolitico “Golden Dawn” assieme a Maurizio Anania. L’opera è ancora in attesa di diventare pellicola…

Cosa significa Roma per la sua carriera?

Molto. Roma significa molto perché è la città in cui sono nato e in particolar modo il Rione Monti. Soprattutto in quelle teatrali in vernacolo romano moderno è Roma, con la sua gente di ogni ceto, il soggetto ed il centro delle mie storie: i fatti della vita, osservati, ripresi e riproposti. Spesso sono drammi personali, o problematiche sociali, che nella romanità evidenziano aspetti dai risvolti anche ridicoli; spesso esaltati dalle battute della commedia, interpretate magistralmente dagli attori. La storia di vita degli avventori di un bar in piazzetta, la mancanza di case popolari per i romani in difficoltà, il raggiro per la produzione di una pellicola, le problematiche morali di una famiglia che scopre di avere un figlio gay; questi sono le tematiche sin ora trattate. Roma è anche il set naturale delle mie pellicole realizzate fin’ora: la spiaggia di Ostia, le rive del Tevere, il quartiere Tiburtino, il giardino del Colle Oppio.

Un riferimento alle sue Origini. Nobiltà nell’era della globalizzazione e del mondialismo. Possono esistere ancora delle prospettive future o rimangono soltanto le pagine dei libri di storia?

Sono marchese davvero, mi chiamo Giulio De Nicolais d’Afflitto e questi sono solo il primo e l’ultimo di una lunga lista di cognomi di grandi casati di mezza Europa che sono la mia famiglia e che sono ahimè stati sottintesi tra l’uno e l’altro esistenti, il giorno che fu inventata l’anagrafe elettronica. Se questa non ci fosse mi dovrei firmare “Giulio de Nicolais d’Ampudia Alvarez de Toledo Surrentino d’Afflitto”: famiglie che hanno fatto la storia del vecchio continente. Basti pensare a Don Perdro Alvares de Toledo Vicerè di Napoli e delle Sicilie nel 1553; e molti altri come il Principe Cesare de Nicolais. Oggi la nobiltà di sangue blu, per essere vera nobiltà deve far coincidere la nobiltà del proprio stemma con quella nobiltà d’animo che scaturisce dal vivere nella carità evangelica.

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