What am I doing here?
Quando
Date(s) - 23/01/2021 - 14/02/2021
Tutto il giorno
Dove
Medina Roma
What am I doing here? An Identity study Mostra digitale di Arte Contemporanea a cura di Nicola Bigliardi dal 23 Gennaio al 14 Febbraio 2021
In collaborazione con All Art has been contemporary
Artisti: Giulio Cassanelli, Fabio Cicuto, Elvino Motti
Vi aspettiamo in Medina Roma Art Gallery in Via Angelo Poliziano, 28-32-34-36
Catalogo delle opere:
Testo curatoriale di Nicola Bigliardi:
“What am i doing here?” è il titolo di una raccolta di racconti, pubblicati in ordine sparso, che avevano segnato alcune tappe del “viaggio da fare a piedi” di Bruce Chatwin poco prima di morire di Aids nel 1988.
“What am i doing here?” diventa interrogativo spontaneo che emerge in un presente intriso di angoscia, paura di ammalarsi e di morire, da una flebile voce umana, quasi strozzata, la cui identità si trova in uno stato sempre più indeterminato e alla costante ricerca di risposte rassicuranti.
“What am i doing here?” diviene il motivo di una digital exhibition in cui 9 frammenti di 3 artisti, Giulio Cassanelli, Fabio Cicuto ed Elvino Motti, emergono, come in Chatwin, senza la consueta ricerca nesso-maniaca, bloccati in una dimensione virtuale che non permette un’interazione sana di contatto con le opere.
Un telo si frappone fra noi e il mondo reale e immaginario, fra quello che Heidegger chiamava zuhanden, il mondo a portata di mano, fisico e vorhanden, quello davanti alla mano, metafisico. Ci copriamo non solo naso e bocca per il benessere collettivo, ma anche gli occhi, le mani e così tutto il nostro organismo che ora vacilla nel suo legame corpo-cervello. Siamo immersi in una condizione alienante di perdita di identità, in preda al panico e all’accidia.
Svuotati di qualsiasi peculiarità somatica e fisiognomica del nostro ritratto non rimane che una silhouette doodle come in Portraits of Unkonwn People I wanna meet (2021) di Giulio Cassanelli. L’artista, qui, oltre a restituirci in chiave simbolica la dematerializzazione del volto umano, pone enfasi nella volontà e il desiderio sempre più forte di contatto interpersonale e intersoggettivo. L’apparente semplicità di gesto si fa portatrice di una profonda gravità e corporeità di segno. Questa necessità di corpo è resa magnificamente dal processo performativo e tecnico con cui viene creata l’opera. Il filo di ferro incandescente, che gravita attraverso la dimensione spazio-temporale, entra e si immerge nel polistirene, oltre il controllo manuale, in una reazione chimico-fisica dal sapore carnale, creando unicità di segno e gesto e restituendoci un ritratto sincero, estemporaneo e identificativo di quella sensazione che permea la nostra identità.
Sensazione che indossa un abito umano in Cheese (2021). Qui, l’unicità del sorriso viene inevitabilmente adombrata e, se nelle opere precedenti della serie questo era un tratto distintivo vitale, ora, non può far altro che sottolineare, insieme al linguaggio del corpo con mani conserte e sguardo malinconico, l’esperienza di un dramma collettivo che non ha colpito solo l’individuo ma la società dei selfie tout-court.
Identità collettiva che ha provato appunto a porre rimedio in quello spettacolo orgiastico e bulimico digitale cui siamo invasi, in cui circolano immagini svuotate del loro senso cancellati della loro identità rimanendo pure icone come in Monna Lisa’s Wink (2020). Qui Cassanelli cancella la Gioconda, divenuta icona dell’arte per antonomasia di certo non per il suo contenuto quanto per la sua risonanza mediatica. La cancellazione dell’artista diventa metonimia di una società che la concepisce – direbbe Marcel Duchamp che già fece eco dadaista alla Monna Lisa con Lhooq nel 1919 – come ready-like, usata cioè come mezzo per ricevere like sui social e quindi come nutrimento prediletto per l’ego moderno. Monna Lisa’s Wink, da icona dell’arte qual è, evidenzia inoltre una identità dell’arte, che oggi viene riconosciuta socialmente per la sua utilità economica o per risonanza sui social.
Ecco allora che Fabio Cicuto, arrangiatore del ricordo, delle memorie e delle tracce, sente l’urgenza di esprimere la sua visione di Monna Lisa (2015) col catrame, in sintonia con la realtà metropolitana moderna. La Gioconda, divenuta ormai icona pop, viene resa su una tavola Ikea, nella veste di un formato tessera o di una immagine del profilo sui social, in maniera brutale, dissacrante, dal sapore punk. Cicuto non vuole ricreare il modello Leonardesco tale e quale, ma ne vuole restituire il senso in chiave moderna senza quindi l’attenzione per la tecnica mimetica rinascimentale e senza contraddizioni pittoriche con lo sfondo e l’ambiente. In un equilibrio indeterminato l’identità della Gioconda diventa ora una macchia di catrame che accidentalmente immerge il volto di Lisa Gherardini e ne oscura la vista. “Monna Lisa” è quindi lo sforzo di far riemergere il passato, è strumento per comunicare col presente, è il tentativo di rimanere memoria futura.
Memorie che secondo il fisiologo H. E. Hering vengono trasferite da padre in figlio sotto forma di memoria inconscia individuale. E in Memories n.5 e Memories n.6 (2017) Cicuto riesce a farci vedere, conoscere e sentire l’inevitabile persistenza della nostra mortalità, della traccia della nostra esistenza e con essa di chi, prima di noi, è diventato memoria. Come giammai prima d’ora l’essere umano si è reso conto della sua fragilità, precarietà e mortalità. L’uomo onnipotente tanto desiderato dalle scienze tecnologiche si è mostrato nudo e debole dinanzi alla morte. Nell’universo pittorico multiforme di segno, colore e materia, Cicuto, ritmico del levare, rende indefinita e ineluttabile la composizione. La fatalità delle diverse direzioni dei segni che ora convergono, ora divergono, hanno come cornice una visione frenetica e di malessere. La striscia nera di catrame emerge in contrasto da uno sfondo chiaro cangiante come risultato dell’estrazione di ricordi dal passato. Parafrasando Montale cigola la carrucola del pozzo dei ricordi e vi rimane una impronta, che alla fine del processo di sottrazione, resiste sulla tela in modo casuale e, seppur non nitida, si mantiene e viene fissata nella memoria pittorica, nella memoria della nostra esistenza, nella memoria della progenie.
In un mondo globalizzato extra-collegato stiamo assistendo a un cortocircuito che ci ha catapultato in una dimensione locale, cittadina, dal sapore artigianale e naturale. E di questa, per molti, nuova dimensionalità naturale e originaria si è da sempre nutrita l’esperienza scultorea di Elvino Motti. Il suo intervento scultoreo è infatti da inquadrare in un rapporto dialettico se non addirittura simbiotico con la natura e con i materiali che essa fornisce. In particolare Torsione 2 (2016) di alabastro e Evolution 2 (2016) fatta di marmo nero di Varenna, proveniente da un paesino vicino a quello dell’artista. Il profondo rapporto con la Natura e la sua terra si rendono visibili e soprattutto tangibili non solo nella conoscenza ma nella coscienza del materiale, la quale permette a Motti di entrare nella materia, dialogare con essa, sentirla e creare insieme a lei l’opera conferendole energia. Motti è scultore originario della Natura perché non inventa forme nuove, anzi rende manifeste quelle che erano invisibili. Con la lavorazione del materiale, l’energia della luce e il dialogo con l’ambiente, forme naturali si divincolano per trovare una autonomia, un proprio corpo, una vitalità ritrovata. Questa vitalità abbacinante è resa anche in materiali industriali come nel metacrilato e acciaio corten nell’opera Disco solare 2 (2010). Anche qui la scultura prende vita, respira di energia propria, si trasforma e da opaca si fa propagatrice di luce evidenziando quanto sosteneva Dante: «La materia è sorda, è lo spirito che la rende viva». Opere come quelle di Motti, se rese digitali, accentuano la necessità, attuale e temporanea, di essere toccate. La scultura ha l’urgenza di essere percepita nella sua tridimensionalità, attraverso i diversi giochi di forme e luci mutevoli che emergono gradualmente mentre le si gira attorno. Ogni angolazione ha il suo movimento di luce, ha la sua ragione d’essere ha una sua forma e un suo movimento. In particolare le sculture di Motti vivono quando noi le tocchiamo. Parafrasando Husserl ogni cosa che vediamo la recepiamo come oggetto tattile, cioè come qualcosa che esiste in quanto corpo, non esclusivamente in virtù della sua visibilità.
In questa mostra digitale, incapaci di avere un contatto con le opere di Motti, così come quelle di Cicuto e Cassanelli, non ci vuole essere rassicurazione o evasione, né rassegnazione. Questa condizione di barriera verso il mondo reale e quello immaginario, è solo temporanea, di certo, ma avrà effetti sulla nostra identità futura al punto che risuonerà spontanea la domanda: …
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