Fabrizio Spadini, Grand Tour – il focus filosofico di Alessia Fallocco

Fabrizio Spadini

Fabrizio Spadini
Grand Tour
Olio su tela
40×40, 2021

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Testo a cura di Alessia Fallocco

Classe 1975. Fabrizio Spadini abbraccia la pittura già nei primissimi anni 2000 a seguito del trasferimento in Toscana, stimolato dalla luce e dal paesaggio. I dolci pendii appenninici e le atmosfere evocative, lo portano verso la pittura en plain air, avvicinandolo così alle felici tradizioni ottocentesche impressioniste, macchiaiole e veriste. Ma è anche possibile rinvenire nelle sue opere elementi di chiaro respiro metafisico, tributi a Sironi, Carrà e De Chirico. E se c’è qualcosa che caratterizza la pittura Metafisica più di altre, questa è senz’altro la staticità, funzionale affinchè si possa cogliere il vero dietro al visibile. Spadini si muove così tra i diversi registri stilistici del XIX e XX secolo italiani, producendo opere destabilizzanti in quanto contenenti una realtà che credevamo di conoscere alla perfezione ma di cui forse ci è sfuggito qualcosa. I paesaggi di Spadini, immersi in una evocativa luce dai richiami impressionisti, rimandano ad un tempo passato di cui credevamo di conoscere tutto. Quasi avevamo la sensazione di poterli dipingere anche noi quei dolci pendii appenninici, tanto familiari ci erano i loro contorni. Invece non sapevamo nulla, o meglio, non tutto. Statiche, come la Metafisica comanda, delle figure dall’aspetto avveniristico si stagliano all’orizzonte più o meno nitide. Esse ci invitano a riconsiderare i nostri saperi e a riavvolgere il nastro della memoria alla ricerca di un prodigio; di una manifestazione epifanica; di un qualsiasi elemento possa aiutarci a capire se siamo stati davvero così ciechi da non cogliere la verità o se semplicemente non gli abbiamo dato il giusto peso. Mi domando cosa sia meglio: ignorare la verità che sta dietro ciò che ci circonda, ammettendo così una nostra intrinseca incapacità di andare oltre la superficie, cosa che ci caratterizzerebbe come specie limitata, oppure essere in grado di cogliere i piccoli prodigi del quotidiano ma archiviarli nell’anticamera del nostro cervello qualora non si accordino con le nostre credenze del momento? Che è un po’ come chiedersi: è meglio non saper vedere o fingere di non saper vedere?

Tant’è. Indipendentemente dalla nostra capacità di cogliere il vero dietro il visibile, esso esiste ed ha forme precise. Sono i grandi e meccanici protagonisti del Novecento: Mazinga Z, Venus Alpha, l’equipaggio della USS Enterprise. Quello che credevamo fosse un semplice prodotto della fantasia era in realtà quanto di più vero potesse esserci. I mangaka, assurgono così al ruolo di testimoni: hanno ben visto quelli che poi diverranno i protagonisti delle loro avventure. Sfuma il confine tra realtà e immaginazione, permettendo così a due civiltà, l’umana e la robotica, di incontrarsi. Un incontro che, ci tengo a precisare, non è una fusione. Le parti restano distinte per quanto si stabiliscano tra loro legami intimi. Ho in mente almeno altre due opere di Fabrizio Spadini in grado di sottolineare questo concetto. In “Dialogo di un islandese con la natura della Scienza”, chiaro tributo all’operetta leopardiana, vediamo un uomo dialogare con una gigantesca Venus sullo sfondo di un paesaggio marittimo, mentre in “Paesaggio urbano con aspettativa” lo spettatore è invitato (in realtà naturalmente portato) a identificarsi con la medesima robotica figura per immaginare con lei il futuro che verrà. Umano e Robot non sono la stessa cosa, eppure un dialogo è concesso. Dal confronto con il nuovo si aprono nuove possibilità, mondi inediti di cui pian piano scopriamo e plasmiamo valori e miti. E’ questa la meraviglia dell’incontro con l’altro: la possibilità di aprire la mente a nuove prospettive e valori.

C’è stato un tempo, circa due secoli fa, in cui si è cercato il contatto con l’altro nel nome della conoscenza così come dell’evasione e del puro divertimento. E’ l’Europa del XIX secolo, protagonista del Grand Tour, il grande viaggio nell’Europa continentale intrapreso dai ricchi dell’aristocrazia europea e destinato a perfezionare il loro sapere e buone maniere. Un viaggio di istruzione intrapreso dai rampolli d’Europa, che aveva come fine la formazione del giovane gentiluomo attraverso l’esercizio del confronto. Il giro aveva come meta prediletta l’Italia con i suoi monumenti, opere d’arte e rovine. E proprio le rovine di un tempio greco-romano troviamo sotto la mastodontica navicella che con metafisica staticità trionfa al centro della tela “Grand Tour” realizzata nel 2021. Lo straniamento di cui sopra è qui reso alla perfezione. La navicella si trova immersa in un paesaggio mediterraneo di cui riconosciamo i contorni, pervaso dalla luce rosata della sera. Proprio la familiarità con il panorama ci porta a chiedere se stiamo assistendo ad un tempo passato di cui non siamo stati in grado di cogliere tutti gli elementi in gioco, o se stiamo volgendo lo sguardo ad un presente in cui nuovi, futuristici personaggi sono riusciti a raggiungerci ed ora esplorano le nostre terre come rampolli dell’aristocrazia intergalattica. La sovrapposizione tra storia e fantasia, tra reale e possibile, è evidente. Il dipinto dialoga con il reale conosciuto consegnandoci una nuova storia, sia essa riferita ad un passato non colto o ad un futuro che ha ancora tutto davanti a sé.

Nuovi attori sono entrati in scena. O sono sempre stati lì, chi lo sa. Certo è che ora siamo consapevoli di non essere più soli. Da questo incontro tra civiltà, mi domando, cosa emergerà? Saremo noi a lasciarci sedurre dalla prospettiva di un mondo ingegnerizzato, e allora le rovine greco-romane quasi si elevano a vestigia del mondo che ci prepariamo ad abbandonare, o piuttosto saranno loro ad abbracciare l’umana ed imperfetta maniera di vivere, restaurando il potere del tempio come luogo di contatto tra il visibile e l’invisibile?

Testo a cura di Alessia Fallocco sull’opera Grand Tour di Fabrizio Spadini

References

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