Fabrizio Spadini, Dialogo tra un islandese e la natura della scienza
Fabrizio Spadini
Dialogo tra un islandese e la natura della scienza
Olio su tela
24×30, 2020
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Testo a cura di Alessia Fallocco sull’opera di Fabrizio Spadini
Leggo da “Lo Sbuffo”, nell’articolo di Gianluca Carchia, un interessante analisi della poetica pittorica di Fabrizio Spadini. Presentando l’opera “Citerna”, che sposa felicemente la pittura di Albani con la fortunata saga Star Trek di Roddenberry, viene spiegato che per l’autore realtà e immaginazione non possono mai fondere. Una mancata fusione che ci catapulta nel mondo della nostalgia.
Il fatto che due concetti non riescano a fondersi non significa che non interagiscano tra loro. Tutt’altro le opere di Spadini mostrano proprio una costante, seppur a volte epifanica ed inconsapevole, interazione tra mondo reale umano e mondo immaginario robotico (ora reale anch’esso, presente, acknowledged come direbbero gli inglesi). Realtà ed immaginario possono di fatto collidere tra loro ma mai le parti si fonderanno insieme. Ci sarà sempre qualcosa che le distingue. Ciascuna con le proprie peculiarità, realtà terrena e immaginifica si prendono per mano e proiettano lo spettatore verso una nuova era fino a poco prima immaginata ora senz’altro possibile. A me sembra che questo felice sposalizio di realtà e immaginazione sia già avvenuto in passato, la creazione del mito. Muovendo dal reale e nel tentativo di dare un ordine al visibile, l’uomo ha elaborato concetti e valori incarnandoli poi in personaggi e paesaggi. Dal forte impatto sul reale, capaci di scendere sulla Terra ed agire ed interagire in essa come qualsiasi altro soggetto umano, essi mantengono peculiarità che non permettono una fusione totale dei due mondi. Quella dipinta da Spadini è allora una nuova mitologia. Nuove figure si stagliano all’orizzonte, epifanica o statuaria presenza, generate da un mondo reale che cambia e sente il bisogno di creare nuovi valori e nuovi modelli adatti ad incarnarli.
Credo sia significativa in questo senso l’opera “Dialogo tra un islandese e la natura della scienza”, un olio su tela di 20 x 30 cm realizzato dall’artista nel 2020. Proprio l’anno di realizzazione è stato per me dato importante per poter significare quest’opera emblematica della nuova mitologia spadiniana. Immobilizzato dalla pandemia da Covid-19, il mondo intero nel 2020 ha visto fronteggiarsi due colossi: la natura e la scienza. La prima sembrava reclamare a gran voce l’ineluttabilità delle sue leggi. La seconda cercava di resistere a tale ineluttabilità e di volgere la situazione il più possibile in suo favore. Se in un primo momento la natura ci è apparsa come quella leopardiana matrigna che tanta sofferenza porta ai suoi figli, dopo qualche mese abbiamo trovato il coraggio di fare fronte comune e sfruttare tutto il nostro potenziale creativo per sviluppare una cura. Non avremmo realizzato il sogno illuminista di un perfetto controllo sulla natura ma abbiamo certamente potuto immaginare che fosse possibile. La scienza apre nuove possibilità e nuove possibilità si concretizzano in nuove realtà e in nuovi valori. L’uomo ha abbandonato il confronto con la natura, con questo genitore capriccioso e anaffettivo, per mettere al mondo un figlio suo. Reso sempre più grande dalle enormi aspettative del genitore su di lui, il bambino “scienza” si è emancipato a sua volta e si presenta ora come il mondo del possibile. Neo-leopardiano genio, Spadini è consapevole delle inquietudini generate da questa nuova realtà immaginifica venuta a collidere con la precedente (della quale abbiam grande nostalgia) e prontamente provvede ad elaborare le nuove “Operette morali”. All’interno di questa nuova mitologia, l’islandese non si confronta più con la matrigna Natura quanto piuttosto con la Scienza. Donna meccanica dalle giunoniche forme, il nuovo interlocutore dell’umano ha un volto e un nome ad esso associato: Venusia. Quanto controllo si pensa di avere su ciò a cui diamo il nome! Ella si interfaccia con l’islandese, dialogando con lui tra dolci pendii e calme acque all’orizzonte. Un animale sembra prendere pure parte alla conversazione. Perché se la natura ancora esiste e non ha certo rinunciato ai suoi capricci, ora è quantomeno chiamata ad ascoltare. E il dialogo tra i due me lo immagino più o meno così:
Scienza: “Sei tu! Cosa cerchi in questi luoghi dove la tua presenza non è ignota?”
Islandese: “sono un Islandese che vo fuggendo la Scienza; e fuggendola quasi tutto il tempo della mia vita per cento parti della Terra, la fuggo ora per questa”.
Scienza: “così fuggi, scoiattolo, dal serpente a sonaglio per non cadergli in bocca. Sono proprio quella da cui tu ti rifugi!”
Islandese: “La Scienza?”
Scienza: “Non altri”
Islandese: “Me ne rallegro fino all’anima! Fortuna maggiore di questa non poteva sopraggiungermi”.
Scienza: “Ben potevi pensare che frequentassi specialmente queste parti, dove non ignori che si dimostra più che altrove la mia potenza. Ma che era che ti moveva a cercar rifugio?”
Islandese: “Tu devi sapere che io fin dalla prima gioventù fui persuaso della vanità della vita, e della stoltezza degli uomini […]. Ma dalla molestia degli uomini mi liberai facilmente, separandomi dalla loro società, e riducendomi in solitudine. Fatto questo io non poteva mantenermi però senza patimento: perché la lunghezza del verno, l’intensità del freddo, e l’ardore estremo della state mi travagliavano di continuo; e il fuoco, presso al quale mi conveniva passare una gran parte del tempo, m’inaridiva le carni, e straziava gli occhi col fumo; di modo che, né in casa né a cielo aperto, io mi poteva salvare da un perpetuo disagio […]. Per tanto mi cosi a cangiar luoghi e climi per vedere se in alcune parti della terra potessi non offendendo non essere offeso. Ma io sono stato arso dal caldo fra i tropici, rappreso dal freddo verso i poli, afflitto nei climi temperati dall’incostanza dell’aria, infestato dalle commozioni degli elementi in ogni dove. Per tanto rimango privo di ogni speranza: avendo compreso che gli uomini finiscono di perseguitare chiunque li fugge o si occulta; ma che Natura, per niuna cagione, non lascia mai d’incalzarci, finché ci opprime. Ma certo, benché ciascuno di noi sperimenti nel tempo delle infermità, mali per lui nuovi o disusati, e infelicità maggiore che egli non suole, tu hai dato all’uomo, per compensarnelo, alcuni tempi di sanità soprabbondante e inusitata”.
Testo a cura di Alessia Fallocco sull’opera di Fabrizio Spadini
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