Luca Tridente e Rosario Oliva: Apeiron

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Date(s) - 16/05/2025 - 29/05/2025
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Dal 16 al 29 Maggio 2025 Medina Art Gallery presenta la Mostra bi-personale di Luca Tridente e Rosario Oliva “Apeiron” a cura di Giulia Bonetti nella galleria di Via Angelo Poliziano 4-6 a Roma.
Opening event Venerdì 16 Maggio alle ore 18
La mostra Apeiron di Luca Tridente e Rosario Oliva – Testo di Giulia Bonetti
Nell’opera di Luca Tridente e Rosario Oliva, il concetto di apeiron si dispiega come un vuoto, un’infinità che si cela sotto le forme e le apparenze, ma che in realtà rimanda a una condizione di perenne oscillazione tra l’individuo e il mondo. Per entrambi, l’arte diventa il mezzo per esplorare ciò che non ha confini, ciò che si estende senza sosta e senza risposte definitive.
Le figure di Tridente, sottili e consumate dal passare del tempo, evocano l’arcano archetipo di Alberto Giacometti, con la sua essenza al limite del visibile. Sono immagini che, pur nella loro scarna fisicità, non sono riconducibili al singolo individuo, ma piuttosto a una condizione universale e collettiva, un simulacro della fragilità esistenziale. Attraverso l’utilizzo della grafite, del carboncino e della pittura acrilica, Tridente si affida a un linguaggio astratto per rappresentare l’uomo in una condizione sospesa tra la vita e la morte, tra il qui e l’altrove. Queste figure, prive di occhi e bocche, diventano emblematiche di un’esistenza segnata dalla distorsione, ma anche dalla speranza di una rinascita. L’oro, che per l’artista può rivelarsi un potente simbolo di potere, rimanda non solo alla dimensione sovrannaturale, ma anche a una riflessione critica sulla ricchezza e sull’economia. In questo senso, l’oro diventa il simbolo di un mondo che tende a estorcere valore dalle sue contraddizioni, un apeiron che si fa materia di sfruttamento e di alienazione, ma anche di speranza nel suo possibile rovesciamento.
La confusione tra cielo e terra, l’elemento metallo come simbolo di un potere astratto e opaco, ci porta a riflettere sulla nostra condizione contemporanea: quella di esseri che, sospesi tra il divino e il terreno, vivono nel conflitto eterno tra creazione e distruzione.
Diversamente, Rosario Oliva presenta un apeiron che assume una deriva negativa, un infinito che si svela nell’illusione di un progresso tecnologico senza limiti. Nei suoi lavori figurativi, i paesaggi e le scene di vita quotidiana non sono mai naturali, ma sono restituiti attraverso una visione antinaturalistica che non si limita a rappresentare la realtà, ma la trasforma in un flusso discontinuo, frantumato, dove i colori artificiali e le forme distorte evocano una realtà filtrata dalla tecnologia. Il ricorso a tonalità vivide e a una composizione che sfida l’armonia naturale, suggerisce una condizione di solitudine e disconnessione che ci accomuna nella nostra epoca iperconnessa.
Il mondo di Oliva, pur radicato nel figurativo, diventa così un terreno ambiguo, dove l’uomo, nel tentativo di emergere dalla frenesia del virtuale, si dissolve nella sua stessa alienazione, spinto in un ciclo senza fine di ricerca e di non-identità.
La sua opera, in cui il paesaggio diventa una simulazione di esperienze quotidiane filtrate dalla tecnologia, parla della nostra schiavitù all’infinito, possibilità che la tecnologia ci offre, ma che ci sottrae la consapevolezza del nostro essere. In entrambi gli artisti, apeiron non è solo il principio dell’infinito, ma anche un luogo in cui l’individuo è costantemente interrogato e frammentato.
Se per Tridente la tensione tra l’umano e l’universale si risolve in una speranza di rinnovamento, per Oliva la deriva è quella di una tecnologia che annulla ogni vero contatto, dove il divenire si trasforma in una perpetua reiterazione. Così, entrambi indagano l’immensità dell’inespresso e dell’incontrollabile, ma con una consapevolezza che rimanda a un futuro che si tinge di luci ambigue, tra speranza e inquietudine.
Luca Tridente
Nasce a Torino il 20 maggio 1968. Figlio d’arte, suo padre Guido, pittore e scultore, ha lavorato con alcuni tra i più importanti artisti del Novecento, come Enrico Baj. Fin da giovanissimo, il piccolo Luca viene avviato alla pittura.
Dal 1982 inizia a lavorare a carboncino, china e acquerello e, sul finire degli anni ’80, si appassiona brevemente allo sketch e al fumetto. Laureato in psicologia, la sua ricerca più intima prende avvio all’inizio degli anni ’90, ma è nel 2010 che Tridente trova la chiave per raccontare la sua poetica e il suo mondo interiore. Il lavoro dell’artista ha attraversato varie fasi: dapprima mettendo in scena se stesso attraverso il suo animale totemico, il Toro; successivamente raccontando la società e il palcoscenico dell’esistente. In questa ultima fase, Tridente mostra due possibilità: una con un’accezione negativa e l’altra in cui l’uomo incontra la natura, riportando lo spettatore in una dimensione di fiducia e speranza.
Gli anni del Covid hanno indubbiamente segnato un momento importante nella vita di ognuno di noi. La sensazione comune di sentirci contemporaneamente coinvolti in un evento di portata mondiale e collettiva, e al contempo estremamente soli, trova forma nell’opera dell’artista. Pur partendo dalla pandemia, questo concetto trascende il fatto e diventa un’attitudine sovrapponibile a situazioni più diverse. Così vediamo grandi masse di persone muoversi senza uno scopo, semplicemente seguendo il prossimo evento “imperdibile”, in un moto comune dove ognuno rimane, però, per conto proprio. Una partecipazione che è solo di facciata, in cui ogni uomo è un’isola e, come tale, rimane isolato. Ne sono un esempio straordinario le opere MoonWork e Luminis Via .
Le figure umane nel lavoro di Tridente non sono aggettivate: non ci sono bocche, occhi o tratti somatici che le rendano riconoscibili. Sono figure scarne, anoressiche, consumate dall’atto di vivere, che ricordano le sculture di Alberto Giacometti o il sintetismo di certe opere d’arte primitiva. L’artista mira all’essenza e parla all’universale, questo aspetto è reso ancora più evidente quando l’artista sceglie di utilizzare la grafite e il carboncino come in Sostare e Rifletto.
L’opera Via Aurea si presenta come una composizione bipartita come quasi tutte le opere dell’artista, dominata da una netta linea d’orizzonte che divide il cielo dalla terra, la causa dall’effetto. La porzione superiore del quadro è occupata da un cielo trattato interamente con il colore oro: una scelta formale ed evocativa che porta lo sguardo fuori dal verosimile, verso la sfera dell’allegoria. Non è un cielo sereno, né un tramonto; è un cielo irreale, che simula il bagliore postumo di un bombardamento, ma senza fiamme, senza detriti. La guerra a cui l’opera allude non è fatta di esplosioni o carri armati. È una guerra economica, sistemica, invisibile ma pervasiva. Il cielo dorato diventa allora simbolo di un potere che si manifesta non con la distruzione diretta, ma con l’accumulazione che corrode, con la logica del profitto che sovrasta e plasma i destini. L’oro che un tempo ornava il divino, qui è sublimato in una luce tossica e onnipresente, che sovrasta un mondo esaurito, bruciato senza fiamma. Sotto questa volta aurea si muovono figure umane, stilizzate, prive di aggettivi o caratteristiche individuali. Camminano nella desolazione, come reduci di una catastrofe silenziosa. Non sappiamo dove vadano, né da dove provengano: sono archetipi della perdita, dell’abbandono, della disgregazione sociale. Il paesaggio che li circonda è nudo, spoglio, e in esso si riflette non tanto la rovina architettonica quanto quella esistenziale. È un dopo che somiglia a un prima mai risolto, un eterno presente di precarietà e smarrimento. L’artista si affida alla forza evocativa dell’oro per smascherarne il potenziale distruttivo. In questo senso, l’opera si situa nella scia di una tradizione che usa il linguaggio della pittura per denunciare ciò che non si mostra: l’ingiustizia che si veste di splendore, l’oppressione che si spaccia per progresso.
Si noti però la seconda produzione di Tridente, quella in cui comincia a palesarsi una presenza diversa da quella umana: la Natura. Una struttura archetipica della natura prende forma nelle opere, quella dell’albero. L’artista dichiara che gli alberi, per lui, sono la testimonianza della resilienza, una resistenza fatta di radicamenti e appartenenza. In Sicut arbor-sicut vita I, il rapporto è opposto: una sola persona abita uno scenario ricco di vegetazione, dalla quale l’uomo rimane distante, come un osservatore silenzioso. In questo caso, l’artista parla di sé, della dimensione contemplativa; il paesaggio diventa la proiezione del riflesso interiore. Il marrone è il colore della calma, della terra, degli artisti. Tridente, con un occhio, vede il mondo esterno e con l’altro sente il mondo interiore.
In Sicut arbor, sicur vita II, al contrario, c’è una sola coppia di persone, quasi fuse in una, circondata dalla natura. Per una volta, l’artista restituisce alla terra il suo colore ontologico, il verde. In questo quadro, la dimensione si fa quasi panica: l’unione del maschile e del femminile, in uno scenario profondamente naturale, rimanda ad antiche simbologie alchemiche in cui l’uomo e la donna, fondendosi, giocano con le forze del cosmo atte alla creazione. Tutto vibra, parla di vita, fiducia e speranza.
Villa Festival mette in scena una sagra di paese senza tempo né luogo, trasformandola in un simbolo universale della tradizione. L’artista rinuncia a riferimenti concreti per restituire l’essenza di un rito collettivo che attraversa le epoche, rimanendo sorprendentemente intatto nonostante i cambiamenti della società. La composizione è costruita su una prospettiva ripida, che guida lo sguardo con forza, e su un curioso ribaltamento cromatico: i palazzi si tingono di azzurro cielo, capovolgendo le aspettative visive e stimolando nuove letture della scena. In secondo piano, ma ricco di significato, si trova un grande albero secolare, metafora della continuità e delle radici profonde della cultura popolare. Nonostante la sua posizione defilata, l’albero diventa il simbolo silenzioso di ciò che resta, di un’identità che persiste al di là delle trasformazioni. L’opera si propone così come una riflessione sulla memoria condivisa e sulla forza discreta delle tradizioni che ci legano.
Umbrae Vagiae, ultima opera cronologicamente dell’artista, rappresenta un passo ulteriore nella sua esplorazione delle figure e dei contorni, mantenendo la cifra stilistica di un’astrazione emotiva. Le figure, più grandi rispetto alle precedenti, si stagliano in una scena bipartita, immersa nella notte. I contorni delle figure sono frastagliati, come se l’aria stessa avesse distorto la loro forma, un effetto voluto dall’artista per evocare il calore sull’asfalto, il tremolio visivo che distorce la percezione.
Questa scelta cromatica e formale restituisce un senso di fusione tra realtà e illusione, accentuato dall’intensità del cielo, che si tinge di un blu profondo, quasi un misto tra blu di Prussia e oltremare scuro, evocando un’atmosfera notturna densa di mistero. La pavimentazione, che simula una lastra di sale, aggiunge un ulteriore elemento simbolico, richiamando alla memoria un paesaggio sospeso, ma anche un percorso arduo e purificatore. L’aspetto onirico è centrale in Umbrae Vagiae: l’opera si sviluppa come un sogno, in cui la realtà e l’immaginazione si sovrappongono, creando un’atmosfera sospesa. Le figure sembrano muoversi in uno spazio che non risponde alle leggi del tempo e dello spazio, proprio come accade nei sogni, dove i confini tra il reale e l’irrealizzabile si dissolvono. In quest’opera, l’artista non solo esplora la propria identità attraverso le figure femminili, ma invita anche lo spettatore a riflettere sullo stesso senso di fluidità, mutabilità e sospensione che caratterizza il sogno, creando un ponte tra il vissuto e l’immaginario.
Luca Tridente, attraverso il suo incessante viaggio pittorico, ci porta a confrontarci con le ombre più profonde e sfuggenti della nostra esistenza, rivelando la fragilità dell’individuo e il potere di resilienza della natura. In ogni opera, l’artista si fa testimone e protagonista di un mondo in bilico tra distruzione e rinascita, tra isolamento e connessione. Se le sue figure, tanto silenziose quanto universali, ci parlano della solitudine umana e della disgregazione sociale, gli alberi e la natura che compaiono nelle sue ultime opere ci ricordano che, nonostante tutto, c’è sempre una possibilità di rinnovamento, una speranza di unione e di ritorno alle radici. Tridente, con il suo linguaggio evocativo e la forza simbolica dei suoi soggetti, ci invita a riflettere sul nostro posto nel mondo, sospesi tra passato e futuro, tra la terra e il cielo dorato di una bellezza tanto luminosa quanto ambigua. Così, come le sue figure vagano tra il reale e l’onirico, anche noi siamo chiamati a percorrere la via aurea della consapevolezza, pronti ad affrontare le sfide di un mondo che, pur segnato dalla perdita, non smette mai di cercare la propria redenzione.
Rosario Oliva
“Avevo 6 anni quando mi sono accorto che sapevo disegnare. Per me è stata un’epifania”. Così Rosario Oliva racconta uno degli eventi più importanti della sua vita, un momento che ha determinato il suo percorso professionale e non solo, perché essere un artista è qualcosa che va ben oltre il mestiere, è un destino con cui i più fortunati hanno a che fare fin dall’infanzia.
L’artista nasce a Napoli nel 1965, si diploma all’Istituto d’arte, incontra l’illustrazione frequentando l’Istituto Europeo di Design e si trasferisce a Roma nel 1988. Da quel momento non si è mai fermato; da 40 anni è un importante illustratore pubblicitario e art director. Alla sua attività professionale ha sempre accostato, e a volte assimilato, una costante ricerca artistica. Le opere visibili in mostra sono il frutto degli ultimi cinque anni di questa analisi.
Il lavoro di Oliva si sviluppa in due macro aree, trattate con la stessa dignità artistica: figure e paesaggi. In entrambi i casi, il tema di fondo è l’identità. In un mondo in cui a ognuno viene chiesto di fornire almeno tre versioni di sé: una pubblica, una privata e una virtuale, l’artista racconta la disgregazione del sé. Nella costante autodefinizione, l’identità paradossalmente si perde e si frantuma. Così, occupati a dichiarare agli altri chi siamo, ci dimentichiamo di dirlo a noi stessi e smettiamo di essere per apparire.
Nel suo lavoro Dinner, Rosario Oliva propone una riflessione tagliente e lucida sulla trasformazione dei riti quotidiani nell’era della connessione permanente. La scena si apre su una tavola attorno alla quale siedono cinque adulti e una bambina, apparentemente riuniti per condividere un pasto, ma in realtà profondamente isolati nelle proprie bolle digitali. Il cellulare, presente nelle mani di quattro commensali su cinque, diventa emblema di un nuovo tipo di solitudine: una solitudine condivisa, ma non comunicativa. La cena, da sempre simbolo di scambio, racconto e confronto, si svuota di senso e si riduce a un gesto meccanico, mentre il cibo, ormai in putrefazione, denuncia l’abbandono del valore reale delle relazioni. I dettagli allegorici con cui Oliva costruisce ogni personaggio contribuiscono a un quadro grottesco ma tristemente familiare. La figura femminile sulla sinistra, con il codice a barre stampato sulla maglietta, denuncia la mercificazione dell’identità, l’assorbimento del soggetto nel sistema consumistico fino a divenire essa stessa “prodotto”. A capotavola, una figura mutata in un coniglio per l’uso smodato dei filtri social – chiaro riferimento alla celebre maschera virtuale – mette in luce la perdita d’identità in favore di una narrazione estetica e distorta di sé. Colpisce anche l’uomo con la testa sezionata, metafora visiva della frammentazione cognitiva nell’epoca dello scroll infinito. Le immagini e le notizie che scorrono tra le due metà del cranio raccontano un flusso indistinto, in cui tragedie, frivolezze e pubblicità convivono senza gerarchia né riflessione, trasformando l’informazione in rumore. L’ultima figura sulla destra, con un’emoji piangente al posto del volto, completa questo ritratto di disumanizzazione. La sostituzione dell’emozione autentica con il simbolo digitale denuncia l’impoverimento del linguaggio emotivo, ridotto a faccine da tastiera. Al centro di questo vuoto affettivo, emerge l’unica nota di speranza: una bambina, senza telefono, con un orsacchiotto tra le braccia, guarda dritto verso lo spettatore. È uno sguardo che interroga, chiede attenzione, forse salvezza. È lei la sola ancora capace di percepire la disconnessione reale in un mondo perennemente connesso. La sua presenza è fragile ma potente: rompe la quarta parete e invita lo spettatore a riflettere, a rispondere. Con Dinner, Rosario Oliva ci costringe a guardarci allo specchio, restituendoci un’immagine scomoda ma necessaria. L’opera diventa così non solo una denuncia, ma anche un invito: a rallentare, a riscoprire l’ascolto, e a reimparare la presenza.
L’opera di Oliva è molto istintiva; l’artista racconta di preferire la tecnica acrilica proprio perché gli consente una grande rapidità di esecuzione. Il lavoro viene concepito lungamente nel pensiero, ma una volta afferrato, finisce sulla tela molto celermente. Questo è evidente soprattutto nei passaggi: qui l’artista evoca, non descrive; non c’è alcuna intenzione di essere naturalistico, ma la tensione è verso la pittura informale. Anche in queste rappresentazioni si racconta il rapporto con il mondo virtuale: “L’effetto che cerco di rendere nei miei paesaggi è quello di una sovrapposizione di filtri”. Esattamente come per le figure, anche qui l’artista mostra come i filtri delle applicazioni social non siano altro che filtri che mettiamo alla realtà, allontanandoci sempre più dall’autentico per giungere a una dimensione altra. In Green & Pink Landscape, questa pratica è profondamente visibile.
Con Suburban Monochromatism, l’artista ci trascina ai bordi, sia geografici che visivi, per esplorare un’estetica ruvida, imperfetta e profondamente sincera. L’opera nasce da un dettaglio fotografico – un frammento, un angolo, forse un’imperfezione – che ha catturato l’attenzione dell’autore più di qualsiasi visione d’insieme. Da questo spunto minimo, nasce una destrutturazione visiva che è anche un atto di resistenza verso l’ordine, la simmetria e il “bello” convenzionale. L’arte di non voler piacere, ma essere trovata. È un’opera che chiede allo spettatore di cercare, proprio come l’artista ha cercato quel dettaglio iniziale – e invita, implicitamente, a non fermarsi mai alla superficie. Il monocromatismo evocato nel titolo non è soltanto una scelta estetica, ma anche un filtro concettuale: elimina il superfluo, la distrazione del colore che diventa antinaturalistico, per portare l’attenzione sul gesto, sulla materia, sul segno. Ciò che resta è essenziale, sporco, e proprio per questo più autentico. L’opera sfida la composizione tradizionale e rifugge la bellezza rassicurante. I margini urbani, che spesso passano inosservati, diventano qui protagonisti di una nuova narrazione visiva: disordinata, frammentaria, eppure ricchissima di stimoli. Ogni angolo della tela sembra contenere un dettaglio nascosto, un nuovo punto di fuga, un piccolo squilibrio da decifrare. È un invito ad allenare lo sguardo alla complessità del reale, a trovare poesia nel disfacimento, nel non-finito. In un’epoca in cui la perfezione visiva viene esasperata da filtri e algoritmi, Suburban Monochromatism è un atto di rottura: una celebrazione della marginalità, dell’informe, del dettaglio che sfugge.
Un’opera che mostra una ricerca a sé è Scream Louder, Scream Twice. In questo caso, l’artista parte da una fotografia di suo figlio che esprime un grido di gioco; Oliva trascende quella figurazione e porta lo spettatore in una dimensione del tutto diversa, dove l’urlo sembra, al contrario, di paura e disperazione. La tecnica scelta è quella del carboncino su gesso acrilico: il bianco e nero su masonite enfatizza il sintetismo estremo, in cui il volto è reso quasi unicamente dal ripetersi delle due bocche aperte. Oliva compie un gesto pittorico futurista mostrando due momenti e due angolazioni diverse in un’unica immagine. Una curiosità a margine è che l’opera è stata selezionata per apparire in un’importante serie televisiva HBO, The Penguin, in onda su Sky, Prime Video e Now TV, questo a suffragio della spettacolarità di questo lavoro.
Si chiuda questo saggio critico con una tautologia: Low Tide in My Memory non è solo una riflessione sull’infanzia, ma un viaggio che ci riporta indietro nel tempo, a un momento di pura verità e autenticità. Con quest’opera, Rosario Oliva ci invita a riscoprire le radici della sua arte, raccontando come un semplice disegno di Paperino, a sei anni, abbia segnato l’inizio di un percorso che va oltre il fare artistico: è il destino stesso che lo ha scelto. L’arte, infatti, non è un mestiere da imparare, ma una chiamata che plasma chi la pratica, una verità che si svela attraverso ogni pennellata, ogni linea, ogni gesto. Con Low Tide in My Memory, Oliva ci restituisce la più grande delle verità per un artista: l’arte non è solo un lavoro, ma una vocazione, un filo invisibile che lega il passato al presente, e che continua a definirci, a trasformarci, ad accompagnarci nel nostro percorso esistenziale.
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